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La Toscana dei vitigni autoctoni: un patrimonio da scoprire

La Toscana dei vitigni autoctoni: un patrimonio da scoprire

By: Raffaella De Angelis

Esiste un modo più profondo per entrare in contatto con un territorio: lasciarselo raccontare da un bicchiere di vino.
Non è solo questione di gusto, ma di anima, di paesaggio, di storie che si intrecciano tra le viti e le mani di chi le cura ogni giorno.
Passeggiare lungo i filari immersi nel silenzio, rallentare il passo, ascoltare il vento tra le foglie, lasciarsi guidare da chi quel vino lo ha fatto nascere con passione e pazienza, da chi ha le mani segnate dalla terra. Entrare in cantina, dove ogni profumo racconta una storia diversa, e scoprire che il vino non è solo una bevanda: è un viaggio.
Un’esperienza che coinvolge i sensi, accende ricordi e crea legami.

Quando si pensa al vino toscano, la mente corre subito ai nomi celebri: Chianti, Brunello, Nobile di Montepulciano. Simboli di una terra generosa, ma dietro ognuno di questi grandi protagonisti si cela un mondo più intimo, nascosto, sorprendente: quello dei vitigni autoctoni, varietà antiche, talvolta dimenticate, che custodiscono l’anima più profonda della Toscana.

Vitigni dai nomi curiosi e melodiosi: Pugnitello, Foglia Tonda, Canaiolo, Colorino, Ciliegiolo, Colombana, Vermentino Nero. Uve forse poco note, che il tempo e gli eventi hanno cercato di cancellare, ma che continuano a parlare la lingua più autentica del territorio.

Il Pugnitello, il cui grappolo compatto ricorda la forma di un pugno chiuso, è stato recuperato, dopo secoli di oblio, negli anni ’80 dall’Università di Firenze, quando fu riscoperto tra vecchie vigne miste. Oggi vive una seconda giovinezza in Maremma, nel Chianti Classico, in Val d’Orcia, nell’Aretino e lungo le colline metallifere. Non fa concessioni, non cerca il consenso facile, ma regala un’esperienza sensoriale intensa e profonda, capace di lasciare un’impronta. Nel calice è scuro, impenetrabile, profuma di frutti di bosco, viole e spezie. Al gusto è potente ma armonioso, con tannini vellutati. Da provare con una bistecca alla fiorentina o uno stinco di cinghiale, selvaggina, formaggi stagionati per esaltarne la forza primordiale.

Il Foglia Tonda, elegante e schivo, prende il nome dalla forma perfettamente rotonda delle sue foglie. Già coltivato nel Medioevo sulle colline senese, ha subito la stessa sorte di altre varietà: un progressivo abbandono a scapito di quei vitigni di più facile coltivazione.

Nei primi anni 2000, alcuni viticoltori tra le Crete Senesi, la Val d’Orcia e le colline del Chianti, hanno deciso di scommettere su di lui ed oggi i vini prodotti sono di grande struttura, hanno il carattere austero del Sangiovese, profumi di prugna, ciliegia e tannini che promettono una grande longevità. Sono vini da meditazione, da piatti importanti, da serate in cui si cerca un’esperienza. Perfetti con piatti complessi come un cinghiale in umido, uno stracotto di manzo o un formaggio stagionato a pasta dura.

Il Canaiolo è rimasto per secoli all’ombra del più celebre Sangiovese, ma oggi reclama il suo posto tra i grandi. Non cerca applausi fragorosi, conquista con la grazia di chi ha molto da raccontare e poco da dimostrare.

Il suo nome, secondo alcuni, deriva da “canicola” – il caldo torrido dell’estate – oppure da “canaja”, forse per il colore scuro delle sue uve. Ipotesi affascinanti, come lo è la sua lunga storia: già noto nel Medioevo, fu nel XIX secolo che raggiunse il suo momento d’oro grazie a Bettino Ricasoli, il “Barone di Ferro” e padre del Chianti moderno, che lo scelse come alleato fidato. Il Canaiolo aveva un ruolo chiave: ammorbidiva l’irruenza del Sangiovese, ne smussava gli angoli e trasformava il vino in una sinfonia di equilibrio. Era il suo segreto, il tocco d’artista che faceva la differenza.

È una varietà profondamente legata alla Toscana: dal Chianti Classico al Valdarno, dal Senese alla Maremma, fino alle colline di Arezzo.

Alla vista, regala un rosso rubino brillante. Al naso, sprigiona ciliegia, prugna, viola e delicate spezie. In bocca è morbido, rotondo, con tannini gentili e una beva fluida e appagante. Non impressiona con la forza, ma seduce con l’eleganza.

A tavola, è un compagno versatile: perfetto con pappardelle al cinghiale, pici all’aglione, carni arrosto o una semplice bruschetta con olio nuovo. Un vino che sa stare in compagnia, ma anche regalare silenzi pieni di gusto.

Il Colorino è il maestro del colore. Vitigno antico, autoctono, era già presente nelle campagne toscane nel Medioevo. Per secoli è stato il “pigmento segreto” nei blend a base Sangiovese, usato per intensificare il colore e rinforzare la struttura del vino, senza mai reclamare la scena per sé.

Oggi il Colorino svela un’anima ben più complessa e affascinante e si racconta in purezza, con un linguaggio fatto di forza, identità e profumi sorprendenti.

Nel bicchiere è un rosso cupo, profondo, che cattura lo sguardo. Al naso rivela more, amarene, pepe nero, e leggere sfumature balsamiche o selvatiche. In bocca è deciso, tannico, intenso, ma sa mantenere un’eleganza essenziale. Non è un vino che accarezza — è un vino che lascia il segno.

Il suo carattere schietto lo rende perfetto con piatti dal gusto pieno: cinghiale in umido, pecorino stagionato, ma anche con ricette più rustiche come i fegatelli toscani o uno stufato contadino.

Il Ciliegiolo richiama alla dolcezza, alla semplicità autentica. Deve il suo nome al caratteristico aroma di ciliegia che sprigiona il vino in età giovanile. È stato usato in blend per regalare colore e fragranza, ma se lo lascia in purezza rivela un’anima più profonda.

Le sue origini restano avvolte in un alone di mistero. Qualcuno lo vuole arrivato dalla Spagna, altri lo descrivono come progenitore del Sangiovese, ma a prescindere dalla verità storica, il Ciliegiolo è toscano nel cuore e nello spirito. Vive tra le colline ventilate del Tirreno e le alture dell’entroterra, dove riesce a esprimere il meglio della sua generosa indole.

Nel calice si presenta con un rosso rubino luminoso. Al naso è un’esplosione di ciliegie mature, fragola, lampone, con possibili sfumature floreali e speziate come cannella o pepe. Al palato è avvolgente, gentile, carezzevole, con tannini morbidi. È il vino della tavola quotidiana, delle cene all’aperto, delle chiacchiere sincere. Si sposa con piatti rustici, paste al sugo, carni bianche, ma anche con la semplicità di una “fettunta”. Il Ciliegiolo è il vino che sorride, e che ti fa sorridere.

La Colombana è uno di quei vitigni che sembrano raccontare una Toscana fatta di monasteri, orti e vigne addossate ai muri di pietra. Il suo nome evoca la leggenda di San Colombano, il monaco irlandese che attraversò l’Europa per portare la vite e la fede fino al cuore dell’Italia. Non è solo storia: è anche una traccia viva nel paesaggio, un’eredità agricola coltivata per secoli tra le colline lucchesi e pisane, quasi sempre per uso familiare.

Oggi la Colombana è ancora un tesoro raro, ma alcuni vignaioli coraggiosi stanno riportando alla luce questa perla dimenticata, e il risultato è sorprendente: un bianco dalla personalità inconfondibile, che parla di territorio, stagioni, intimità.

Il vino che ne nasce è di un giallo luminoso, con riflessi dorati che sembrano accarezzati dal sole. Al naso si apre con note di pera, mela cotogna, fiori di campo e una delicata sfumatura mielata, come una carezza d’autunno. In bocca è pieno, fresco, leggermente aromatico, con una vena minerale che lo rende vibrante e mai stanco.

La Colombana è perfetta con piatti di pesce bianco, formaggi delicati, torte salate e verdure di stagione. Ma forse il suo abbinamento più profondo è con la lentezza, con quel tempo interiore che si risveglia solo quando si smette di correre.

il Vermentino Nero, che cresce sulle colline granitiche della Lunigiana e lungo i pendii che guardano il mare apuano, è un vitigno tanto raro quanto affascinante. A dispetto del nome, non è parente stretto del suo omonimo bianco, se non forse per la capacità di raccontare il territorio con il suo spirito mediterraneo. Le sue origini esatte sono incerte tanto che per molto tempo si è creduto che fosse una mutazione del Vermentino bianco, ma le analisi ampelografiche e genetiche, invece, mostrano somiglianze con il Grenache Noir (Alicante, Cannonau), ma non abbastanza da dichiararlo un parente stretto. Potrebbe essere un vitigno autoctono a sé stante, forse derivato da incroci spontanei antichi.

Quasi scomparso nel secolo scorso, è stato riscoperto da pochi vignaioli appassionati, custodi di un’identità vinicola unica.  E’ un rosso fuori dal coro, che unisce l’agilità dei vitigni da costa alla grinta di quelli di montagna. È vino di confine, di contrasti, di armonie inaspettate.

Nel bicchiere si presenta con un rubino scuro e lucente, e al naso regala un bouquet complesso: frutti di bosco, erbe aromatiche, pepe nero, grafite, con un tocco di liquirizia o resina. Il sorso è scattante, sapido, speziato, con tannini ben definiti e una freschezza che lo rende particolarmente gastronomico. È perfetto con piatti intensi e speziati: agnello alle erbe, zuppe di legumi, acciughe marinate, ma anche con cucine fusion o orientali, che ne esaltano la componente balsamica e la profondità. Il Vermentino Nero è il vento della costa che porta profumi di macchia e sale, un rosso che sfida le regole e vince con l’identità.

Dopo aver raccontato le storie di uve dai nomi antichi, vale la pena fermarsi un attimo perché, se oggi possiamo ancora lasciarci incantare dai vini nati da questi vitigni autoctoni, lo dobbiamo al coraggio silenzioso e alla visione ostinata di piccoli vignaioli.

Custodi della memoria, hanno saputo trasformare uve dimenticate in emozioni da assaporare. Degustarli non è solo un gesto: è un atto di scoperta, quasi una ribellione gentile alla standardizzazione dei gusti. È scegliere la strada meno battuta, quella che conduce dritta all’anima viva di un luogo.

E allora sì, esiste davvero un modo più profondo per entrare in contatto con un territorio:
lasciarselo raccontare da un bicchiere di vino e da chi ha lottato perché la sua identità non andasse perduta.

Perché certi vini non si bevono soltanto.
Si ascoltano. E si ricordano.

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